NewsIl rabbino Shaul Robinson: “Le nuove sfide della comunità ebraica di New York”
Shaul Robinson

Il rabbino Shaul Robinson: “Le nuove sfide della comunità ebraica di New York”

Shalom.it: Intervista a Shaul Robinson, rabbino della “Lincoln Square Synagogue di New York, di Claudio Pagliara

Shaul Robinson mi accoglie con un sorriso smagliante. Affronta le sfide della post pandemia con l’ottimismo della ragione. E’ certo che anni meravigliosi seguiranno a quello orribile che ci stiamo mettendo alle spalle. Dal 2005 è rabbino capo della sinagoga “Lincoln Square”.  Una comunità ortodossa moderna tra le più variegate, per età, status sociale, estrazione economica. Riflette la realtà dell’upper-west side di Manhattan, un mix di banchieri, professori universitari, scrittori, poeti, artisti. La sinagoga, che è stata inaugurata nel 2013, è la più grande costruita a New York in mezzo secolo. Ha 429 posti e si trova di fronte al Lincoln Center, nell’area dei teatri di Broadway, a poca distanza dai grandi musei.

La sua comunità come sta vivendo l’uscita dalla pandemia?

Il Covid ci ha colpiti quando ci preparavamo a festeggiare il Purim, occasione di grandi raduni. Abbiamo chiuso le sinagoghe prima che chiudessero gli altri luoghi di culto. Nessuno immaginava che l’emergenza sarebbe durata così a lungo.  Ora stiamo affrontando la sfida della ripresa.  Abbiamo riaperto da un anno. All’inizio molti avevano paura.  Ma pian piano è tornata la fiducia.  Recentemente, abbiamo abolito l’obbligo di indossare la mascherina.  Il messaggio è arrivato: col vaccino, si è protetti.  Ciò detto, c’è molto da fare per riportare la gente in sinagoga. Alcuni sono tornati subito, perché ne sentivano la mancanza. Altri hanno perso l’abitudine di venire. Altri sono anziani e hanno paura. Per la comunità ebraica di New York, e in modo particolare per noi che siamo a Manhattan, la sfida è ancora più difficile. New York è stato l’epicentro della pandemia. Le case, anche quelle di lusso, diventano piccole quando  genitori e figli devono lavorare e studiare da remoto. Così molti, soprattutto i giovani, hanno lasciato la città.

Ritiene che i cambiamenti siano permanenti? O si tornerà al passato?

Questo resta un grande punto interrogativo. Manhattan è sempre stata una calamita, specie  per i giovani. Ma c’è anche chi ha lasciato New York con l’intenzione di non tornarci. La comunità ebraica sembra destinata a rimpiccolirsi, ma certamente non a sparire. Allo stesso tempo, anche New York è cambiata. Manhattan è cambiata. Basta passeggiare per strada per rendersene conto. Gli homeless sono aumentati. Ed è aumentata la criminalità. La sensazione è che alla polizia sia stato chiesto di intervenire il meno possibile. Vivo a Manhattan da 15 anni fa. Questo quartiere, l’upper West side, era lindo, bello ed estremamente sicuro. Ora è facile incontrare gente minacciosa. Chi ha lasciato la città, non torna anche perché si sente insicura.

Come guida religiosa della comunità, nelle sue relazioni con le autorità locali, ha posto la questione della mancanza di sicurezza nelle strade della città?

Quando la prima ondata del covid è terminata, a maggio-giugno, ci siamo resi conto che il quartiere era cambiato. Molti hotel sono stati trasformati in ripari per homeless, le strade si sono popolate di persone con problemi psichici.  Noi rabbini e i leader delle comunità ebraiche abbiamo posto il problema molte volte.  La politica però fa orecchie da mercante. Sotto l’influenza del movimento Black lives matter, l’accento si è spostato sui problemi di giustizia sociale. La sicurezza della classe media è passata in secondo piano. I dirigenti delle forze di polizia sono più solidali, ma ci hanno detto chiaramente che hanno le mani legate.

Che iniziative intende prendere per attrarre chi ha lasciato la città?

La strada migliore per tornare alla normalità è mostrare che si può. Abbiamo riaperto la sinagoga. All’inizio abbiamo invitato a venire solo chi se la sentiva. Le regole erano molto strette: distanziamento sociale, mascherina. Nessuno si è ammalato. Ora che la gente è vaccinata, il messaggio è cambiato: insistiamo che bisogna tornare in sinagoga.  Partecipare alla vita di una vibrante comunità è bello.

Sulla scia dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas si è assistita a New York e altrove ad una ondata di attacchi antisemiti senza precedenti. È preoccupato?  

Sono molto preoccupato. Non direi che ciò che è successo è senza precedenti. C’è stata una ondata di antisemitismo anche prima della pandemia. Dopo Gaza la situazione è peggiorata. Non solo a New York, in molte parti del mondo gli ebrei sembrano diventati un obiettivo legittimo per attaccare Israele. In passato, proteste anti-israeliane avvenivano davanti a Consolato d’Israele e al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Ora si vandalizzano sinagoghe e si attaccano singoli cittadini in quanto ebrei.

Come giudica la reazione delle autorità statunitensi locali e nazionali?

Inadeguata. Ovviamente, nessun politico vuole apparire antisemita. Ma ci sono politici di estrema sinistra molto ostili ad Israele. Un membro del Congresso americano è arrivato a definire Israele uno Stato-apartheid. Il nuovo sindaco di Buffalo, un progressista che appartiene al Partito social democratico, sostiene che nessun membro del Congresso dovrebbe visitare Israele. Sono dichiarazioni senza precedenti nella storia della politica americana. Non ci si può stupire poi se un militante anti-israeliano prende di mira un ebreo in metropolitana. La retorica contro Israele crea ostilità contro gli ebrei, non c’è dubbio. Sembra essere diventato  corretto e comprensibile considerare la comunità ebraica risposabile delle azioni del governo israeliano. E’ un atteggiamento profondamente antisemita. Per questo riteniamo che i politici che hanno nei riguardi di Israele una ossessione ingiustificata e sproporzionata alimentano l’antisemitismo. Allo stesso tempo, le autorità non agiscono nei casi di antisemitismo con la necessaria risolutezza. Il responsabile dell’attacco più grave di queste settimane, il pestaggio di un ragazzo ebreo sulla 47esima strada che è stato costretto a ricorrere al ricovero in ospedale, è stato rilasciato il giorno dopo su cauzione nonostante non avesse mostrato alcun segno di pentimento e, anzi,  avesse  dichiarato che lo avrebbe volentieri fatto di nuovo.  Un delitto simile, motivato da odio razziale, contro un’altra comunità, non sarebbe stato trattato allo stesso modo. Nonostante l’influenza che la comunità ebraica ha a New York, non sembra che la nostra sicurezza sia una priorità per le autorità.

La ripresa economica è la strada maestra per il ritorno alla normalità. E’ ottimista circa il futuro di Manhattan?

Assolutamente sì. Io sono fiducioso che davanti a noi ci sono anni fantastici. Negli anni ’70 e ’80, New York era molto meno sicura, ma questa sinagoga era una dinamica e straordinaria  espressione dell’ebraismo. La popolazione era molto variegata: professori, avvocati, dottori, poeti e drammaturghi.  Negli ultimi venti anni, New York è diventata sempre più costosa. Il quartiere è cambiato. E’ invecchiato. Meno poeti e drammaturghi, più banchieri e investitori.  Ora la città è diventata un po’ meno cara. Nuove famiglie, nuove coppie, nuovi single arrivano. I partecipanti alle funzioni mattutine dei giorni feriali sono già più di prima della pandemia. I segni di un rimbalzo ci sono. Il nostro compito è di far sì che accada.

Claudio Pagliara, giornalista e autore, racconto gli Stati Uniti al pubblico della RAII. Ho scritto “La tempesta perfetta. USA e Cina sull’orlo della terza guerra mondiale”, Edizioni Piemme

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