GeopoliticaQuel Giorno: 11 settembre, venti anni dopo
11 settembre, 20 anni dopo

Quel Giorno: 11 settembre, venti anni dopo

 

Speciale Tg1 5/7/2021

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Quel Giorno: Speciale Tg1 5/9/2021

Quel Giorno: Speciale Tg1 5/9/2021

Tuta mimetica, fucile in mano, passo veloce: una foto spettrale che entra nei libri di storia.

L’ultimo militare a lasciare il suolo afghano è il generale Chris Dònahue, comandate della mitica 82esima divisione paracadutisti, cui vengono affidate le missioni più difficili.

Appena le ruote del c -17 che lo riporta in patria si staccano dalla pista dell’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, i talebani festeggiano a modo loro … sparando in un cielo buio come la pece. Il cerchio si chiude. L’Afghanistan è di nuovo nelle loro mani. Come venti anni fa.

Gli ultimi 15 giorni sono stati tra i più difficili.

La caduta repentina di Kabul, il 15 agosto; lo sforzo caotico e disordinato degli americani e dei loro alleati di evacuare concittadini e afgani che hanno aiutato la coalizione. E l’incubo terrorismo che si materializza il 26 agosto: un terrorista suicida dell’ISIS si fa esplodere tra la folla che si accalca ai cancelli dell’aeroporto di Kabul uccidendo 13 soldati americani e decine di civili afghani.

La clessidra del tempo fissato per la fine delle operazioni, il 31 agosto, si svuota in crescendo di tensione. Droni statunitensi uccidono due membri di spicco dell’ISIS e altri kamikaze pronti ad entrare in azione a Kabul. Razzi verso l’aeroporto sono intercettati dalla difesa aerea.

E’ il ritiro più anticonvenzionale della storia del esercito americano. .

123 mila persone sono messe in salvo dal ponte aereo della coalizione. Ma duecento cittadini americani e decine di migliaia gli afghani a rischio rappresaglia sono stati lasciati indietro. Armi sofisticate per miliardi di dollari sono finite nella mani dei nemici. E l’America a 20 anni dlal’11 settembre, nonostante le rassicurazioni del presidente Joe Biden torna a temere un attentato sul suo suolo.

(TITOLO)

Quel giorno

di Claudio Pagliara

 

 Harrison

Non ero ancora nato. Ma ho visto in tivvù documentari sull’11 settembre. Mia madre era incinta di me e proprio quel giorno era andata in ospedale per un’ecografia.

 Tristan

Sono nato un mese dopo, ma mi sono documentato e ora so tutto: cosa è successo, chi lo ha fatto, come abbiamo reagito.

 Anthony

Avevo quattro anni quando è successo, non posso ricordare molto, ma a scuola, ogni 11 settembre, ricordiamo quel giorno.  Ho appena visitato per la prima volta il memoriale. Non riesco ad immaginarmi qui quel giorno, nei panni dei newyorkesi che l’hanno vissuto in prima persona. Deve essere stata una esperienza orribile.

 Susan

Ero stata qui molto tempo fa. Questa è la seconda volta. Anch’io ero molto piccola quando è successo. Ricordo solo che mia madre era in cucina a guardare la televisione ed era davvero spaventata. Io non capivo bene cosa stesse succedendo. Questo memoriale ci ricorda che esistono persone malvagie, che succedono cose brutte. E che dobbiamo apprezzare i momenti belli della vita.  E ringraziare il Cielo che non eravamo qui quando è successo.

 Ground Zero, 20 anni dopo. Al posto delle Torri, due piscine. L’acqua, simbolo della vita che continua a scorrere, si tuffa nel buco nero, l’opera distruttiva del terrore, quasi a volerlo colmare.

Lungo il bordo, incisi sul marmo tremila nomi, le vittime dell’attentato più raccapricciante della storia.

 

(didascalia)

Nessuno di muova, andrà tutto bene: se vi muovete, potreste creare problemi a voi e all’aereo.

Diciannove terroristi di Al-Qaeda, la mattina dell’11 settembre del 2001, dirottano quattro aerei di linea. Ne dirigono due contro le Torri Gemelle, un altro sul Pentagono, il quarto precipita in un prato vicino Shanksville, in Pennsylvania, dopo che i passeggeri e i membri dell’equipaggio si erano eroicamente ribellati ai dirottatori.

Due miliardi di perone in tutto il mondo assistono in diretta tv all’attacco orchestrato da Osama Bin Laden. Da allora, sono trascorsi vent’anni. Ottanta milioni di americani, un quarto della popolazione, sono nati successivamente. Per loro l’11 settembre non è memoria ma storia.

Il museo costruito dove erano state gettale le fondamenta delle Torri si rivolge in primo luogo a loro, alla generazione zeta, i nati dopo il duemila.

Alice Greenwald, Presidente del Museo e Memoriale 11 settembre

La missione principale di questa istituzione è di insegnare ai giovani, che non hanno vissuto l’11 settembre sulla loro pelle, ma devono studiarlo sui libri di storia, cosa è successo, come è successo, perché è successo. E, ancor più importante, come abbiamo reagito a quello che è successo. Questo è anche il museo del 12 settembre, oltre che dell’11 settembre.  E il 12 settembre non solo gli Stati Uniti ma anche il mondo intero sono stati pervasi da un afflato unanime; da una effusione di solidarietà, da un dolore condiviso, da compassione, empatia e speranza.   Con spirito di servizio, la gente è accorsa a Ground Zero e ha cercato di aiutare ognuno come poteva.

 Su una parete, le foto delle vittime. L’altoparlante diffonde i ricordi dei familiari. Così la moglie di una delle vittime ricorda il giorno in cui ha incontrato il marito.

 

(didascalia)

Sono stata benedetta da un angelo. Il suo nome era Michael Patrick Iken. Ho realmente la sensazione che Dio mi abbia mandato un angelo.

 Il museo contribuisce ad educare i giovani e a conservare la memoria. Ma il ricordo più vivido di quel tragico giorno lo custodiscono coloro che l’hanno vissuto in prima persona.

 

L’ATTACCO: ERA UNA BELLISSIMA GIORNATA

Robert La Pietra era al 13esimo piano della prima torre colpita, quella nord, quando un boato ha cambiato la sua vita …  e anche il corso della storia.

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

Dell’11 settembre, ricordo molte cose. La prima, è che era una giornata bellissima. Il cielo era blu, non c’era una nuvola all’orizzonte. Ricordo che sul treno per andare al lavoro ero seduto accanto ad amici e colleghi. Ascoltavo quello che dicevano al cellulare, facevano programmi per la sera. Ricordo quanto bello fosse quel giorno.

(didascalia)

American 11, hai provato a contattarci.

Il mio nome è Betty Ong, sono la numero tre sul volo 11.

La nostra numero uno è stata accoltellata, la nostra numero cinque è stata accoltellata.

Ho un problema con Amercan per un possibile dirottamento.

Ora stiamo risalendo

 

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

Come facevo sempre, appena entrato in ufficio, sono andato in cucina.  Ricordo molto chiaramente, ho messo un bagel nel tostapane, ho premuto il pulsante per farlo scendere e… c’è stata un’esplosione…

 L’esplosione non era come l’esplosione che si vede in TV, era più o meno come un rombo, era come trovarsi in fondo a una valle mentre dalla montagna viene giù una valanga. Era un rombo simile. E il rombo si faceva sempre più forte, come se si stesse avvicinando al pavimento. E l’edificio ha iniziato ad oscillare.

 Una scossa molto violenta. Anche al piano dove ero, ero al 13esimo piano, ma la scossa è stata molto violenta.

 Al quel punto, tutti hanno iniziato a gridare e a correre all’impazzata. Chi si nascondeva sotto la scrivania. Chi negli armadi, nessuno sapeva bene cosa fare. E forse 30 secondi dopo, ho visto fogli di carta fuori dalla finestra. Questa è una delle immagini più chiare, fogli di carta che cadevano, alcuni fogli erano in fiamme, sembrava neve. Dopo un po’, è arrivato l’addetto alla sicurezza, ci ha raggruppati, e ci ha detto – non lo dimenticherò mai: un aereo ha colpito l’edificio, questo edificio è molto forte, il posto più sicuro dove stare è nell’edificio. Non dovete uscire. E dunque, siamo rimasti nell’edificio. Siamo tornati alle scrivanie, ci siamo seduti. Nella mia mente ho immaginato che fosse un piccolo aereo ad aver colpito l’edificio.

(didascalia)

E’ un luogo turistico internazionale con tanta gente. C’è un altro aero in arrivo

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

Probabilmente – non ricordo esattamente quanto tempo sia passato, mezz’ora, quaranta minuti dopo – l’altro edificio è stato colpito, la torre due è stata colpita. E c’è stata un’altra esplosione.  E i detriti di quell’edificio ora colpivano il nostro edificio, colpivano le vetrate, rompendole. E si è creata di nuovo una situazione caotica. Tutti ci siamo precipitati verso l’uscita, un pompiere, che saliva le scale a piedi, ci ha detto: cosa ci fate ancora qui? Dovete uscire da questo edificio.

 Nella rampa di scale regnava il caos. Era buio. Finalmente, quando altri pompieri sono arrivati al nostro piano, un minimo di ordine è stato ripristinato. Abbiamo ripreso a scendere le scale, in fila indiana. E mentre noi scendevamo, decine di giovani ragazzi salivano. E’ un’immagine che mi è rimasta nella mente perché quei giovani ragazzi probabilmente non ce l’hanno fatta. Molti di quei giovani pompieri, che risalivano le scale con il loro equipaggiamento sulle spalle, non ce l’hanno fatta.

(didascalia)

Mayday, mayday. Erano due aerei. Ho visto il secondo. Ha colpito l’altra Torre.

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

In quel momento, ancora non sapevo quale fosse la situazione. 

Uscito finalmente dall’edificio, in Liberty street, la prima cosa che ho fatto è stata ovviamente di girarmi a guardare. E’ stato uno shock. Il fuoco, le fiamme che uscivano dalle Torri, sembrava la scena di un film.

Entrambi gli edifici erano in fiamme. E non ho potuto neppure fermarmi troppo a guardare perché polizia e vigili del fuoco continuavano a ripetere: “Andate avanti, non fermatevi”.

Sono arrivato a due isolati di distanza, e la Torre due è crollata.

(didascalia)

Guardate le due Torri … una grande esplosione … una pioggia di detriti viene su di noi … E’ meglio spostarsi da qui, ora.

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

E’ stato il caos. La gente urlava, gridava, scappava.  E una nuvola di polvere d’amianto invadeva la strada.

 Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

Ci siamo messi a correre verso l’East River.  E quando siamo arrivati all’East River, la torre uno è crollata. Ed è stato di nuovo il caos: urla, elicotteri, sirene.

Che giornata pazzesca!

(didascalia)

Cosa è successo?

E’ crollata, gli ultimi piani sono crollati. L’ho vista esplodere e mi sono messo a correre come un dannato. Grazie a dio, ho 69 anni ma riesco ancora a correre.

 

Robert La Pietra, sopravvissuto all’11 settembre

A quel punto, ho preso la decisone di lasciare New York e tornare a casa.  Così, mi sono incamminato in direzione nord e sono arrivato alla Quarantesima strada, dove c’è la darsena.  Ci ho messo circa due ore. E da lì, mi sono voltato in direzione delle torri: questi due bellissimi fari di prosperità, non c’erano più. Solo fumo. Una nuvola di fumo. 

 Corriere della Sera: “Ho visto decine di persone gettarsi dalle finestre”. La Stampa. “Ho visto corpi cadere dalle Torri in fiamme”.

Maria Teresa Cometto, giornalista

Quella era casa nostra, noi abitavamo in quel palazzo là.

E le Torri gemelle, invece?

Maria Teresa Cometto, giornalista

E le Torri gemelle erano proprio qua, sopra di noi, al posto della Freedom Tower, adesso. 

 Due giornalisti italiani, una coppia, Maria Teresa Cometto e Glauco Maggi, vivevano in un condominio a due passi dalle Torri. E sono stati testimoni oculari dell’inimmaginabile.

Maria Teresa Cometto, giornalista

Abbiamo sentito un boato terribile e quindi siamo scesi giù a vedere quello che era successo, e abbiamo visto una voragine nella prima torre e la gente attorno attonita.  In quel momento tutti eravamo increduli, si pensava a qualche errore,  ma col secondo aereo è stato chiaro che non un errore, non era un incidente, che era un attentato terroristico. A questo punto siamo rimasti lì sotto, da cronisti.

Glauco Maggi, giornalista

Io avevo un taccuino.  Quando ho visto la prima vittima, il primo impiegato che si è buttato dal centesimo piano, ho segnato il minuto di questo primo, poi ho messo la crocetta, erano le 9,11.

Maria Teresa Cometto, giornalista

Erano le 9,11 … e abbiamo visto la prima persona che si buttava. Eravamo pietrificati, veramente. La gente intorno guardava in alto, qualcuno ha iniziato a piangere sapendo che i suoi colleghi o amici erano lassù. Non so, è un incubo che ritorna e che rimane sempre nella mente, ovviamente.

(didascalia)

Non ho visto che cosa è successo. Ma ho appena visto gente buttarsi dal palazzo. Sto cercando di trovare mia sorella perché lei è nel palazzo.

 Flavia Nordio, quel giorno, era dall’altro capo di Manhattan, nell’upper-east side.

Flavia Nordio, ristoratrice

Io ricordo il rumore assordante degli elicotteri e degli aerei che volavano bassi. Non quelli di linea, perché avevano completamente sospeso i voli. E mi ricordo anche quest’altra situazione surreale. Vedevi tutte queste nuvolette di fumo uscire dalle fermate della metropolitana. E dopo la nuvoletta ti usciva questo bel signore, vestito bene di Wall Street, con i capelli completamente bianchi.

 

LA RISPOSTA: UN MESSAGGIO VENUTO DAL CIELO

 

Don Pintabona, chef

Quel giorno ero a casa mia a Brooklyn con i miei tre figli. Ho portato la più piccola, tre anni, in terrazzo, sul tetto, dove si poteva vedere il World Trade Center dall’altra parte del fiume. La gran parte dei pezzi di carta e dei detriti venivano sospinti dal vento nella nostra direzione, verso Brooklyn.

Ad un certo punto ho visto questo foglio di carta, più grande degli altri, volteggiare e posarsi sul mio terrazzo.  Era la pagina di un dizionario. E la prima parola che ho visto era “perverso”. Ovviamente ho pensato ai terroristi che avevano compiuto l’attentato.  Tutte le altre parole della pagina erano potenti e negative. Ma quando ho girato il foglio, tutto era diverso: in questo lato ci sono solo parole positive: perseverare, persistere, termini che infondono speranza. Ho pensato davvero che questo fosse un messaggio che veniva dal cielo, ed era diretto a me, mi diceva di fare qualcosa.

Non c’è voluto molto a Don per capire che doveva fare ciò che aveva sempre fatto: cucinare. Questa volta però i suoi pasti sarebbero stati offerti gratuitamente ai pompieri e ai volontari che da subito dopo il crollo delle Torri si erano messi a scavare alla ricerca di sopravvissuti. Ma l’area era devastata. E i ristornati, compreso il suo, non erano in condizioni di operare.

Don Pintabona, chef

Mi sono seduto vicino al fiume. E ho visto una barca che scendeva lentamente. Portava acqua ai soccorritori.  E’ stato allora che ho avuto l’idea di utilizzare imbarcazioni per cucinare e servire pasti. Mi sono rivolto ad una compagnia turistica, la Spirit Cruises. E subito mi hanno messo a disposizione tre navi, una da trasformare in ristornate,  due per la logistica.

 In appena 72 ore, cuochi e volontari uniscono le forze e danno vita a “Chefs with spirit”, una operazione di solidarietà colossale: in un mese cucinati e distribuiti un milione di pasti gratuiti.

Don Pintabona, chef

Questo molo era completamente coperto di detriti, sembrava Marte. Ho ormeggiato una delle barche lì. Vi si accedeva da quella banchina.

Pensavo di preparare cinque mila pasti giorno. Ma il primo giorno, sono venute 25 mila persone. E 25 mila ogni giorno successivo. La pressione era enorme. Bisognava reperire cibo gratuito. Ma in quei giorni, tutto era possibile. Non ho mai visto una cosa simile. Il sostegno della città, del Paese, della comunità internazionale. E’ stato incredibile.

 Chiamati da sempre “The Bravest”, i più coraggiosi, dopo l’attacco alle Torri Gemelle i vigili del Fuoco di New York sono diventati nell’immaginario collettivo degli eroi. Davanti ai loro occhi, l’11 settembre si era spalancato l’inferno. E ci si sono gettati senza esitazione. Senza il loro sacrificio, il bilancio dell’attentato sarebbe stato ancor più pesante.

 Daniel Nigro, Commissario Vigili del Fuoco di New York

L’idea che due enormi aerei di linea si potessero schiantare sugli edifici più alti di New York, a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro, era inimmaginabile. Ma le conseguenze create ci erano in qualche modo familiari. Due edifici erano in fiamme e c’erano persone da salvare. È il nostro mestiere.  Nonostante non ci fossimo mai trovati ad affrontare una crisi di questa magnitudine, le operazioni di salvataggio erano in corso. Abbiamo fatto uscire tutti quelli che potevamo dai piani più in basso delle aree di impatto. Alla fine, il tempo è scaduto. Questo è il punto. Quelli che erano più in alto … che riposino in pace. Abbiamo cercato disperatamente di raggiungerli, il tempo non è stato sufficiente.

Nella sala d’ingresso del Dipartimento dei vigili del fuoco di New York sono incisi i nomi degli agenti morti in servizio. Alla data “11 settembre 2001”, la lista è interminabile: 343 nomi, tanti sono i pompieri che hanno perso la vita sotto le macerie delle Torri. Tra questi, anche il Comandante del Dipartimento, Peter Ganci.

Daniel Nigro, Commissario Vigili del Fuoco di New York

Era un mio caro amico. Eravamo molto uniti. Eravamo sempre insieme. E’ stato molto triste per me assumere il comando all’indomani della sua morte, ma questa responsabilità doveva pur ricadere sulle spalle di qualcuno. Il Dipartimento era stato decimato. Ma abbiamo immediatamente reagito.  Nei giorni e nei mesi successivi, ricordo la dedizione dei miei uomini: non hanno mai lasciato il sito, 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, hanno rinunciato ai congedi, hanno lavorato notte e giorno, sotto la pioggia e la neve, per recuperare i resti delle vittime e consentire alle famiglie di celebrare i funerali.

 Il comandate Ganci, sopravvissuto per un soffio al crollo della prima torre, era tornato per ordinare ai suoi uomini di ritirarsi dalla seconda. Non ce l’ha fatta. Il suo corpo, estratto dalle macerie ore dopo, assieme alla sua radio…

All’epoca il figlio, Chris, aveva 25 anni.

Chris Ganci, comandante Vigili del Fuoco del Bronx

Appena ho visto in tivvù le immagini del primo aereo che colpiva il  World Trade Center, conoscendo mio padre, ho subito pensato che fosse lì. Non era un comandante che restava nelle retrovie. Era sempre accanto ai suoi uomini, in prima linea.

Chris aveva altri progetti per la sua vita. Ma l’estremo sacrificio del padre, l’ha spinto ad indossare la stessa divisa.

Chris Ganci, comandante Vigili del Fuoco del Bronx

Mio padre era felice. Era sempre felice di andare al lavoro. Non è quasi mai così: non c’è molta gente felice di quello che fa. A lui piaceva ciò che faceva. Quando è morto, ero nel mondo degli affari, guadagnavo bene, ma non ero soddisfatto della mia vita. Qualcosa mi ha spinto verso il dipartimento dei vigili del fuoco. E lo sa? E’ stata la decisione migliore della mia vita. Non ho mai avuto rimpianti. Quella di vigile del fuoco è una professione pericolosa, ovviamente. Ma non è solo un lavoro, è amore.  

 Per Chris entrare nel corpo dei vigili del fuoco è stato anche un modo per onorare quotidianamente la memoria del padre.

Chris Ganci, comandante Vigili del Fuoco del Bronx

Ogni giorno che vengo qui, mi sembra di essergli più vicino. La fibbia del 1968 della cintura è sua. Come lo stemma sul colletto.  Sento che è con me. Quando sono davanti ad un incendio e devo prendere decisioni su cosa fare, mi chiedo sempre: cosa farebbe lui?

 Quello di Chris non è un caso isolato. All’ultima cerimonia di diploma, tra i 300 nuovi pompieri, 13 erano figli di pompieri morti l’11 settembre.

 Daniel Nigro, Commissario Vigili del Fuoco di New York

Abbiamo diversi figli e figlie che hanno seguito i loro padri nel Dipartimento. E’ sempre motivo di orgoglio costatare il coraggio di giovani che giurano di essere pronti a mettere le loro vite a rischio. Ma siamo ancora più orgogliosi quando è un figlio o una figlia di un pompiere morto in servizio ad alzare la mano destra e a giurare di voler proteggere la vita e le proprietà dei cittadini.

 Monsignor Robert Ritchie mi accompagna in uno dei luoghi della memoria. La cattedrale di San Patrick, sulla quinta strada. Bisogna inerpicarsi in cima alla torre sud. Qui sulle vetrate, incisi nella polvere col dito i nomi dei pompieri che vengono regolarmente a controllare il sistema di spegnimento fiamme.  Tra i tanti, anche quattro agenti morti l’11 settembre.

Mons. Robert Ritchie, Cattedrale di St. Patrick

Quando abbiamo scoperto che i loro nomi erano qui, abbiamo deciso che non li avremmo mai cancellati. Abbiamo rinunciato a lavare le vetrate. Questi nomi resteranno qui per sempre. Questo è un memoriale che pochissime persone possono visitare. Sono venuti i familiari, il Comandante dei vigili del fuoco, le autorità. Tutti ci sono molto grati per aver deciso di non cancellare mai questi nomi.

Un nome, una rosa, una foto. Un piccolo gesto che ha un grande valore.

Di buon mattino, addetti al memoriale inseriscono rose bianche nelle scanalature dei nomi delle vittime che oggi avrebbero compito gli anni e scattano foto che vengono spedite ai familiari.

Alice Greenwald, Presidente del Museo e Memoriale 11 settembre

E’ un gesto che piace ai familiari. E ricorda ai visitatori che ad ogni nome corrisponde una persona. Non sono solo nomi incisi in un memoriale. Appartengono a persone che oggi avrebbero celebrato il loro compleanno. E’ un messaggio potente: non dimentichiamo le vittime,  e non ricondiamo solo come sono morte, ricordiamo anche le loro vite.

 A fornire le rose al museo è Mickey, una passione per i fiori che l’accompagna fin dall’infanzia.

Mickey Collarona, fioraio

Eccoci qui, questo è mercato dei fiori! Cerco di venire qui ogni giorno. Arrivo di buonora, tra le 5 e 30 e le 7 e 30. Qualche volta anche prima. Il mercato apre alle 3 e 30. La strada è vuota e all’improvviso diventa così.  

Questi fiori si chiamano Monrovia, vengono dalla California.

E queste sono composizioni decorative.

Le peonie in questa stagione sono in fiore. Sono bellissime.

Io ci sono cresciuto in questo mercato. Da bambino, dormivo in un negozio di fiori. I fiori hanno sempre parlato al mio cuore.

 E il cuore di Micky è grande. Ha assistito all’attacco alle Torri dalla strada sulla quale si affaccia il suo negozio di fiori. Si è precipitato immediatamente a Ground zero, per dare una mano. E quando è stato chiaro che non c’erano sopravvissuti, ha fatto ciò che il suo mestiere impone in casi del genere: ha allestito un memoriale.

Mickey Collarona, fioraio

Il mio compito era si tenerlo in ordine.  Così ho iniziato. E col tempo, il memoriale è diventato sempre più grande. E quando è stato ultimato il museo dell’11 settembre, mi hanno chiesto se fossi interessato a fornire le rose nel giorno in cui le vittime avrebbero compiuto gli anni. Ho risposto che lo avrei fatto molto volentieri, ma gratuitamente, non a pagamento. E’ un grande onore per me donare le rose per il compleanno delle vittime.

 Per il Memoriale, Micky seleziona le rose migliori.

Mickey Collarona, fioraio

Ecco, questo è un bel mazzo. Queste sono le rose giuste.

 La notizia che le rose per il memoriale vengono donate da Micky è giunta fino alle orecchie dei familiari delle vittime.

Mickey Collarona, fioraio

A volte, la mattina presto, davanti al negozio, ci sono persone ad aspettarmi. Spesso hanno gli occhi lucidi. Sono parenti delle vittime. Mi chiedono se sono io il fioraio delle rose. E quando rispondo di si, mi abbracciano, mi baciano.

 

LA GUERRA PIU’ LUNGA

 

L’11 settembre del 2001, il Presidente George W. Bush è in Florida. Alle 6,30 del mattino, fa un’ora di jogging. Nella sua agenda, c’è la visita ad una scuola elementare. Lungo il tragitto, apprende che un aereo ha colpito la torre nord del World Trade Center.

(didascalia)

Questa notizia ci è appena arrivata: un aereo si è schiantato sul World Trade Center.

Racconterà di aver pensato ad un incidente dovuto o al maltempo o ad un malore del pilota.

George W. Bush

(didascalia)

Caspita, o il tempo è brutto o qualcosa di straordinaria è successo al pilota.

E in classe ad assistere ad una lezione di lettura quando il capo dello staff si avvicina e gli sussurra: “Un secondo aereo ha colpito la seconda torre. L’America è sotto attacco”. Bush si rabbuia ma non si alza di scatto.

Una decisone che qualcuno criticherà. Ma la maggioranza dell’opinione pubblica americana la considererà una prova di leadership. Davanti ai bambini, e ai reporter al seguito, nel momento più buio per il Paese, era opportuno  non mostrare panico.

Lo choc, lo sconcerto, l’orrore per ciò che stava accadendo, però, traspaiono nelle foto scattate subito dopo.

Bush vorrebbe rientrare a Washington, ma arriva la notizia che un terzo aereo ha colpito il Pentagono.  I servizi segreti decidono che per il Presidente, in quel momento, c’è un solo luogo sicuro: l’Air Force One. Gli F-16 che lo scortano sono l’immagine dell’incertezza che regna.  In volo, Bush impartisce l’ordine più difficile, quello di abbattere il volo United Airlines 93, che non risponde alla torre di controllo. I caccia, però, arrivano quando l’aereo è già precipitato al suolo. Passeggeri e membri dell’equipaggio si erano ribellati ai terroristi in un disperato tentativo di riguadagnare i comandi dell’aereo. Hanno evitato così che colpisse un quarto obiettivo, probabilmente la Casa Bianca o Capital Hill, sede del Congresso.

 Bush trascorre ore in volo, tra una base militare e l’altra, prima di fare rientro a Washington e rivolgersi, da comandante in capo, alla nazione. Promette che i mandati dell’attentato verranno perseguiti.

 

George W. Bush

(didascalia)

Non faremo alcuna distinzione tra i terroristi che hanno compiuto l’attentato e coloro che li proteggono.

Il 14 settembre Bush visita Ground zero. Usa un mezzo rudimentale, un megafono, per mandare un messaggio al Paese e al mondo.

George W. Bush

(didascalia)

Gli americani sono in ginocchio, in preghiera per le persone che hanno perso qui la vita. Vi sento! Il resto del mondo vi sente! E le persone che hanno distrutto questi edifici sentiranno tutti noi molto presto.

Il 7 ottobre, i caccia statunitensi e britannici riversano una pioggia di fuoco sulle basi di Al Qaeda e sui talebani, al potere in Afghanistan.  Inizia quella che passerà alla storia come la guerra più lunga degli Stati Uniti. Al suo apice, vedrà impegnati 100mila soldati americani e 30mila della Nato, tra cui 5mila italiani.  Il 2 maggio del 2011, Osama Bin Laden viene ucciso in un blitz dei Navy Seals a Abbottabad, in Pakistàn.

Barack Obama

(didascalia)

Buonasera. Stanotte posso annunciare agli americani e al mondo che gli Stati Uniti hanno compiuto una operazione nella quale è stato ucciso Osama Bibn Laden, leader di Al Qaeda.

Il generale David Petraeus, all’epoca, era il comandante delle forze americane e NATO in Afghanistan. Ricorda di aver seguito tutte le fasi dell’operazione dalla sede del Comando congiunto per le operazioni speciali a Kabul. Fino a quando il capo del commando ha pronunciato la frase: Geronimo, Geronimo: la parola d’ordine che indicava che Bin Laden era stato ucciso.

Gen. David Petraeus, ex comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan

Non ci siamo dati il cinque, non abbiamo pensato che fosse tutto finito. Osama bin Laden era stato giustiziato. Era un fatto sostanzialmente e simbolicamente importante. Ma ci siamo rimessi subito al lavoro, per portare a termine un’altra decina di operazioni in corso quella notte, alcune delle quali probabilmente più impegnative di quella appena compiuta.

Obama invia decine di migliaia di soldati in più in Afghanistan, per accelerare l’addestramento delle forze di sicurezza afghane. Ma il consenso dell’opinione pubblica scema, con l’aumento delle perdite inflitte dai talebani. Nel 2014 Obama delinea la prima rod map per porre fine al conflitto.

La svolta la imprime Donald Trump. Nel 2018, a Doha, americani e talebani avviano negoziati di pace, senza la partecipazione del presidente afgano, Ashraf Ghani. Il 29 febbraio del 2020 l’accordo che spiana la strada ad una forte riduzione delle truppe statunitensi in cambio dell’impegno dei talebani di impedire che il Paese venga usato per lanciare attentati contro gli Stati Uniti e i loro alleati e di avviare colloqui con le altre componenti del Paese.

Quando Joe Biden entra alla Casa Bianca, le truppe statunitensi sono al livello più basso dall’inizio della guerra, 3mila e cinquecento. Il presidente democratico, che ha rovesciato molte politiche del suo predecessore, sull’Afghanistan non cambia direzione di marcia. Ad aprile l’annuncio che il  ritiro verrà completato entro il ventesimo anniversario dell’11 settembre.

Joe Biden

(didascalia)

E’ ora di porre fine alla guerra più lunga dell’America. E’ tempo per le truppe americane di tornare a casa.

Il piano di ritiro elaborato dagli strateghi del Pentagono si basa sulla convinzione che i 300 mila agenti afghani addestrati dalla NATO opporranno resistenza all’assalto dei talebani e che Kabul non cadrà prima di due anni.

Un errore colossale.

Dopo l’evacuazione, il 6 luglio, della base aerea di Bagram, l’avanzata dei talebani diventa inarrestabile. Persa la copertura aerea degli americani, le forze afghane si arrendano senza combattere. Prima cadono i villaggi. Poi, una dopo l’altra, le città. E il 15 agosto i talebani entrano nel palazzo presidenziale di Kabul. Il presidente Ashraf Ghani è fuggito nottetempo ad Abu Dhabi.

Scacco matto all’Occidente.

L’aeroporto di Kabul diventa l’ultimo baluardo di un sogno infranto. Biden invia seimila marines per proteggerlo. Agli americani e i loro alleati – Italia in testa – danno vita ad uno dei ponti aerei più vasti e difficili della storia. In 15 giorni ad altissima tensione, vengono evacuate 123mila persone, in grande maggioranza afghani, che hanno aiutato le forze della coalizione nei venti anni di lotta al terrorismo.

Molte le immagini che rendono onore a chi serve la propria nazione indossando una divisa o gli abiti civili. Il console a Kabul, Tommaso Cluadi, diventa il simbolo dell’Italia che aiuta. In questa sequenza di foto, solleva un bimbo in lacrime tra la folla e lo porta al di là del muro dell’aeroporto.

Il successo del ponte aereo, però, non cancella l’amarezza per un ritiro che assomiglia ad una fuga mentre i talebani festeggiano la vittoria.

Fareed Zakaria, commentatore e scrittore

L’errore degli Stati Uniti in Afghanistan è stato quello di porsi un obiettivo troppo ambizioso. Era possibile, come è stato fatto, decimare al Qaeda, punirla per l’attentato dell’11 settembre, uccidere Osama bin Laden. Ma abbiamo cercato di costruire una democrazia. È qui che abbiamo fallito. I nostri sogni erano troppo grandi.

Il costo umano e materiale della guerra è stato immenso: 2.300 soldati americani uccisi; 53 i militari italiani caduti in imboscate o attentati; i soli Stati Uniti hanno speso l’astronomica cifra di duemila miliardi di dollari.

Biden difende la scelta del ritiro. “L’alternativa era inviare altre decine di miglia di soldati. E prolungare la guerra all’infinito”, sostiene.  Ma tra militari c’è chi pensa che lo status quo, poche migliaia di soldati a sostegno delle truppe afghane, fosse una strada percorribile.

Gen. David Petraeus, ex comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan

E’ straziante. È tragico. È molto triste. E francamente, è disastroso in termini di sicurezza nazionale. Questa è una vittoria per i jihadisti.

Il governo afghano precedente,  per quanto imperfetto, era  stato eletto democraticamente, aveva permesso la libertà di parola, la libertà di stampa, aveva  permesso alle ragazze di andare a scuola e alle donne di andare all’università. Aveva permesso l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro.

Era di gran lunga meglio di ciò che lo ha sostituito, i talebani alleati dei talebani, la rete Haqqani, un’organizzazione terroristica. E’ ancora tutto da dimostrare che i talebani hanno davvero tagliato i legami con al Qaeda. In ogni caso, quello che è successo incoraggerà altri gruppi islamisti a fare altrettanto, verrà visto come un esempio di ciò che si può fare contro gli infedeli.

I sondaggi dicono che la maggioranza degli americani condivide la scelta di Biden porre fine alla guerra più lunga, ma critica il capo della Casa Bianca per il modo con cui ha calato il sipario.

Fareed Zakaria, commentatore e scrittore

E un duro colpo per il presidente Biden. Quando si è insediato alla Casa Bianca, aveva promesso un cambio di passo. “Non sono come quel pazzo di Trump. Con lui tutto è caotico. Niente è pianificato. Tutto è in mano a dilettanti. Noi invece siamo dei professionisti”. E nei primi sei mesi della sua presidenza, Biden ha mantenuto la promessa:  vaccini, misure economiche. In questo caso, però, è difficile sostenere che l’amministrazione abbia mostrato competenza, che abbia pianificato adeguatamente, che abbia preso in considerazione tutti i possibili scenari e le loro conseguenze.

I talebani riporteranno indietro le lancette dell’orologio? Alcuni segni direbbero di sì: le donne sono già scomparse dalle strade di Kabul. Ma c’è una fondata speranza che le cose possano andare diversamente.

Gen. David Petraeus, ex comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan

I talebani sono in seri guai, lo scopriranno, è molto più facile essere all’opposizione che essere al governo. Hanno le casse vuote, l’unica entrata sono i proventi del traffico illegale di stupefacenti. Questo non basterà.  Gli afghani rischiano la fame. Le banche sono chiuse, i bancomat non emettono denaro. Le riserve del governo all’estero sono congelate. I talebani saranno sottoposti a enormi pressioni. E la mia speranza è che questo li porterà a governare il paese in un modo migliore di quanto fecero negli anni Novanta, quando governarono l’Afghanistan come nel Medio Evo.

 Ma c’è il rischio che l’Afghanistan torni ad essere un santuario dei terroristi. I tredici soldati uccisi all’aeroporto di Kabul poco prima della fine della missione sono un tragico campanello d’allarme.

Mariangela Zappia, ambasciatrice d’Italia negli Stati Uniti

Non possiamo abbassare la guardia. La minaccia è presente. E’ una minaccia per tutti.

Mariangela Zappia, prima donna Ambasciatrice d’Italia negli Stati Uniti, l’11 settembre era a New York, in servizio presso la nostra Rappresentanza alle Nazioni Unite.

Mariangela Zappia, ambasciatrice d’Italia negli Stati Uniti

Credo che rispetto a venti anni fa ci sia una consapevolezza molto maggiore. L’11 settembre la scoperta che potevamo essere colpiti sui nostri territori, nel posto dove più ci sentiamo sicuri. In realtà fu anche la scoperta, che credo oggi sia più valida che mai, che la sicurezza interna di un Paese è totalmente legata alla sicurezza degli altri.

Dopo vent’anni di guerra al terrorismo, il mondo è più o meno sicuro?

Fareed Zakaria, commentatore e scrittore

Non ho dubbi. Vent’anni dopo l’11 settembre siamo più sicuri. E siamo più sicuri perché la vera battaglia che l’11 settembre ha innescato non è stata una battaglia tra l’Occidente e l’Islam. È stata una battaglia all’interno dell’Islam, tra i moderati e i militanti, tra i laici e i fondamentalisti. E quella battaglia è stata in gran parte vinta dai moderati.

Alice Greenwald, Presidente del Museo e Memoriale 11 settembre

La guerra al terrore non è stata vinta perché i terroristi continuano a seminare il caos nel mondo. Ma c’è ora la consapevolezza dell’inaccettabilità del terrorismo. Ciascuno di noi comprende che avrebbe potuto esserci suo figlio tra le vittime dell’attentato al concerto di Manchester, che avrebbe potuto esserci suo marito nelle Torri di Manhattan, che avrebbe potuto esserci lui sull’aereo diretto a Disney World. Questa consapevolezza spinge tutto il mondo a rifiutare il terrorismo. Un’eredità utile per andare avanti.

 

LA PISTA SAUDITA

 

Bruce Eagleson, eroe dell’11 settembre, è scritto sulla lapide, posta all’ingresso del centro sportivo di Middletown, nel Connecticut.

Il figlio, Brett mi mostra le foto di famiglia. Ecco il padre nelle vesti di allenatore. Di professione, Bruce era un uomo d’affari. La sede della sua società era al World Trade Center. L’11 settembre, si era quasi messo in salvo, quando ha deciso di tornare sui suoi passi, per recuperare i walkie talkie che aveva in ufficio e darli ai pompieri in difficoltà a comunicare tra loro.  E’ stato travolto dal crollo della prima torre.

Brett è il portavoce dei familiari delle vittime dell’11 settembre che, dopo aver ottenuto dal Congresso una legge, JASTA, che riduce l’immunità degli Stati sovrani, hanno fatto causa davanti al tribunale federale di New York all’Arabia saudita per complicità nell’attentato, chiedendo i danni..

Brett Eagleson, figlio di una delle vittime dell’11 settembre

La gente continua a chiedermi:

“Che ruolo avrebbe avuto l’Arabia Saudita?  Sai bene che non sono stati funzionari del loro governo a dirottare gli aerei”.

Certo che no, non sono stati loro. Ma hanno aiutato i dirottatori in tutti i modi possibili: ad affittare casa, ad ottenere documenti, ad iscriversi alle scuole di volo.

Nelle ultime settimane, il processo civile ha fatto un grande passo avanti: il giudice ha interrogato a distanza, sotto giuramento, i sauditi sospettati di aver aiutato i terroristi.

Secondo le 28 pagine del rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’11 settembre dedicate alla pista saudita, almeno due dei dirottatori Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, appena arrivati negli Stati Uniti sono stati aiutati a dispiegare in varie pratiche burocratiche da funzionari sauditi. Tra questi, Omar al-Bayoumi, ufficialmente uno studente, ma secondo l’FBI probabile spia. E Fahad al-Thumairy un diplomatico del consolato di Riad a Los Angeles e imam di una moschea dove si propaganda il verbo anti occidentale.

Brett Eagleson, figlio di una delle vittime dell’11 settembre

Quando i primi due dirottatori sono arrivati a Los Angeles, non sapevano neppure leggere il cartello che indica l’uscita dall’aeroporto. Non avevano alcuna conoscenza dell’inglese, non avevano alcuna conoscenza della cultura americana. Non sarebbero mai riusciti nei loro intenti, senza la rete di supporto saudita

Ben 15 dirottatori su 19 erano cittadini sauditi. Come peraltro il regista dell’attacco, Osama bin Laden.

L’FBI ha continuato ad indagare per anni, segretamente, sui contatti tra i dirottatori arrivati negli Stati Uniti senza alcuna conoscenza del Paese e i funzionari sauditi che li hanno aiutati a muovere i primi passi. I risultati dell’inchiesta, chiamata “Operazione Encore”, contenuti in un rapporto del 2016.

Ad una settimana del ventesimo anniversario dell’11 settembre, la svolta di Joe Biden. Il presidente firma un decreto che spiana la strada alla rimozione, entro sei mesi, al segreto di stato sul rapporto degli 007. L’opinione pubblica saprà se ci sono prove o indizi di un coinvolgimento diretto dell’Arabia saudita.

Per i familiari che chiedono al governo americano trasparenza, si tratta un passo cruciale nella giusta direzione.

La mossa di Biden ha importanti implicazioni geopolitiche. Se i sospetti di complicità con al Qaeda trovassero conferma, i rapporti degli Stati Uniti con il potente alleato, già scossi dal caso Kashoggi, subirebbero un colpo irreparabile.

 

VOLTARE PAGINA

 

Tredicimila bambini e bambine sono nati negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001. Hanno rappresentato l’unico raggio di luce in quel giorno nero come la pece. Hillary è una di loro.

Hillary O’Neill

I primi anni, i mei genitori erano combattuti tra il desiderio di festeggiarmi in modo normale, con torta, palloncini e regali e il dovere di rispettare le memoria delle vittime. Crescendo, si è trovato un equilibrio, Il mio è un compleanno dal sapore agrodolce.

Singolare sorte è toccata ai figli dell’11 settembre. Secondo gli storici il XXI secolo è cominciato proprio quel giorno.

Hillary O’Neill

Dal giorno in cui sono nata, il mondo è cambiato. Siamo entrati in un’altra epoca, il dopo 11 settembre E io non ho alcuna memoria diretta dell’epoca precedente, che mi consenta di fare un paragone.

 Alice Greenwald, Presidente del Museo e Memoriale 11 settembre

Oggi non ci pensiamo su due volte a toglierci le scarpe all’aeroporto o ad aprire i bagagli per entrare in un ufficio. Le misure di sicurezza sono diventate la norma. Il mondo è cambiato. Viviamo in un mondo in cui i giovani non vedono un attentato terroristico come una eccezione, tragicamente per loro è la regola. Che siano scuole, chiese, teatri, concerti, non c’è più posto totalmente sicuro. Prima dell’11 settembre, era quasi impensabile il livello di violenza cui oggi siamo sottoposti quotidianamente, negli Stati Uniti e nel mondo intero. Penso che l’11 settembre abbia aperto il vaso di Pandora della violenza. Non dovremmo accettare che la violenza diventi la norma,  on questa è la realtà nella quale viviamo.

 I nati quel giorno sono cresciuti in un ventennio straordinariamente denso di eventi traumatici.

Il loro Paese, gli Stati Uniti, è stato perennemente in guerra, in Afghanistan, in Iraq.

Frequentavano le scuole elementari, quando i genitori sono stati travolti dal crollo finanziario del 2008.

Avevano 11 anni quando un ragazzo affetto da depressione è entrato nella scuola elementare Sandy Hook, a Newtown, Connecticut, e ha ucciso con un’arma automatica 26 persone, tra cui 20 bambini di sei e sette anni.

E ormai ventenni hanno visto morire senza neppure il diritto ad un funerale molti dei cari, falcidiati da una pandemia che ha fatto negli Stati Uniti un numero inimmaginabile di vittime.

I figli dell’11 settembre hanno votato per la prima volta alle elezioni presidenziali dello scorso anno. Il giornalista e scrittore Garrett Graff ne ha tracciato un sorprendete identikit in una inchiesta pubblicata da Politico.

Garrett Graff, scrittore

Questa è una generazione che avrebbe tutto il diritto di essere triste, amareggiata, traumatizzata. E invece, le voci di chi è nato quel giorno trasmettono una straordinaria speranza e fiducia nel futuro degli Stati Uniti e del Pianeta.

Hillary ne è un esempio. Fa parte di “Nine Eleven Day”, una organizzazione che raggruppa i nati l’11settembre.

Hillary O’Neill

La missione dell’organizzazione è quella di far rivivere lo spirito di unità emerso all’indomani dell’11 settembre: i vicini di casa che si aiutano a vicenda, le persone che si ritrovano assieme, superando ogni steccato. 

All’indomani dell’attentato dell’11 settembre, Nile Rodgers raduna artisti, attori, vigili del fuoco, poliziotti, cittadini e con loro registra una nuova versione di “We Are Family”, una hit del 1979.

Nasce “We are family Foundation”.  Tra le tante iniziative, Three Dot Dash, un raduno annuale di giovani, che nei loro Paesi d’origine hanno promosso progetti di pace. Ad ogni raduno, Don Pintabona racconta la sua storia. E la morale che ne ha tratto.

Don Pintabona, chef

In America, abbiamo molte pagine da girare: divisioni politiche, violenza prodotta dalle armi, iniquità, razzismo. Siamo ad un bivio, dobbiamo scegliere: il bene contro il male, le cose giuste contro quelle sbagliate, la speranza contro la paura. la cosa più importante è voltare pagina, tornare sul lato delle parole positive, persistere, perseverare. Penso che questo messaggio, voltare pagina, sia ancor più importante oggi di quanto non lo fosse 20 anni fa: dobbiamo restare sul lato positivo.

 

 

Claudio Pagliara, giornalista e autore, racconto gli Stati Uniti al pubblico della RAII. Ho scritto “La tempesta perfetta. USA e Cina sull’orlo della terza guerra mondiale”, Edizioni Piemme

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