Al Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino ( email: enzo.iacopino@odg.it )
Caro Presidente,
Con questa lettera aperta, intendo esprimerle la mia profonda indignazione per la decisione di ospitare nei locali dell’Ordine dei Giornalisti la conferenza stampa di Freedom Flottiglia II. I giornalisti italiani sono iscritti d’ufficio all’Ordine, che in quanto istituzione professionale non dovrebbe schierarsi su argomenti controversi.
Freedom Flottiglia II è sponsorizzata dall’IHH (Insani Yardim Vakfi), un controverso gruppo fondamentalista islamico turco. Le vele delle sue imbarcazioni non sono gonfie di anelito umanitario. Prima dell’epilogo sanguinoso della precedente spedizione, infatti, Israele si era offerto di consegnare gli aiuti alla popolazione di Gaza, dopo ispezione. Il vero scopo di Freedom Flottiglia è legittimare Hamas, movimento integralista votato alla distruzione di Israele, armato dall’Iran, e nemico giurato del Presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas.
A causa della complessata’ della situazione, la sua iniziativa, anche se – ne sono certo –animata dalle migliori intenzioni, risulta oggettivamente partigiana. Al fine di dissipare il sospetto che l’Ordine dei Giornalisti si schieri con una sola delle parti del conflitto – per giunta la più radicale, la invito ad ospitare al più presto una seconda conferenza, dando voce a chi non l’ha avuta nella prima: tra gli altri, i residenti di Sderot, la cittadina da 8 anni sotto il fuoco islamico e i familiari di Gilad Shalit, il caporale ostaggio da oltre 1600 giorni di Hamas.
Cordialmente
Claudio Pagliara, Corrispondente Rai per il Medio Oriente
Ieri sera un colpo di mortaio esploso dalla Striscia di Gaza ha ferito un israeliano. Dopo l’offensiva “Piombo fuso” il fuoco islamico si e’ diradato, ma nessuno si fa illusioni che cessi. Hamas ha come obbiettivo dichiarato la distruzione di Israele. E’ finanziato dall’Iran, alla cui guida c’e’ un signore che nega l’olocausto e arricchisce uranio. Ad esserne spaventati sono in primo luogo i Paesi arabi. Non solo quelli moderati, Egitto e Giordania. Ma anche la culla dell’islam, l’Arabia Saudita che, come ha svelato Wikileaks, ha ripetutamente chiesto agli Stati Uniti di bombardare Teheran. Hamas, inoltre, e’ in rotta di collisione con il Presidente dell’Autorita’ Palestinese, Mahmoud Abbas, punto di riferimento di Stati Uniti e Europa.
In una situazione cosi’ complessa, e’ oltraggioso che il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Jacopino, abbia deciso di sostenere quel potente strumento di propaganda pro Hamas che prende il nome di “Freedom Flottiglia”. Con il pretesto di “liberare Gaza” il movimento e’ in prima linea nel tentativo di delegittimare Israele e rafforzare il regime islamico che tiene in ostaggio un milione e mezzo di palestinesi a Gaza.
Enzo Jacopino e’ libero di promuovere le peggiori cause, ma a titolo personale, non nelle vesti di Presidente dell’Ordine dei Giornalisti. Non in mio nome. Non nel nome di molti, spero, miei colleghi.
Per i dettagli delle iniziativa pro flottiglia del Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, clicca qui
Alla fine gennaio 2009, quando potetti finalmente entrare nella Striscia di Gaza, che per il mese precedente, quello dell’offensiva Piombo Fuso, era stata interdetta alla stampa estera (provvedimento censurabile e controproducente, deciso – mi è stato – dal premier Olmert contro il parere dei vertici militari) realizzai almeno due scoop. Il primo: intervistai una giovane ragazza che per tre settimane aveva implorato i militanti di Hamas di non usare il grattacielo dove abitava con decine di altre famiglie come base per lanciare razzi contro Israele, ricevendo come tutta risposta l’invito ad immolarsi per la causa. Il secondo: scoprii che il missile israeliano che aveva fatto vittime in una delle scuole dell’Unrwa era esploso fuori il recinto, e non dentro come riportato dalle fonti locali.
Poi è arrivato il rapporto Goldsone, che ha messo sullo stesso piano Hamas e Israele. Confesso che, da testimone dei fatti, ne rimasi sconcertato. Come è possibile un simile parallelo? Vero, l’offensiva Piombo Fuso ha causato almeno 1200 vittime palestinesi. Vero , la maggioranza di esse sono civili. Eppure, la condotta di Hamas e di Israele non possono essere giudicate con lo stesso metro: da una parte c’è una organizzazione
Mettiamola così, cari amici. Vostro padre viene assassinato, un tribunale individua i killer, e voi, figli ingrati, cosa fate? Date il benvenuto a chi quei criminali ha armato e finanziato. Non è una boutade , non è un paradosso. E’ ciò che è accaduto ieri sera, al gran ricevimento del nuovo padrone di casa del Libano, il presidente iraniano Ahmedinajad. A rendergli gli onori dovuti c’era anche il primo ministro Saad Hariri. Chissà se almeno lo ha sfiorato il rimorso di coscienza quando ha stretto una mano che gronda di sangue paterno.
Rafik Hariri, il padre di Saad, ex premier libanese, fu ucciso il giorno di San Valentino del 2005, in un attentato terroristico spaventoso. Al termine di complesse indagini, il tribunale ad hoc istituito dall’Onu e’ ora sul punto di incriminare alcuni alti dirigenti Hezbollah per complicita’ nell’attentato. L’indiscrezione non ha indotto, come ci si potrebbe aspettare, Saad Hariri, che di un leader non ha neppure una vaga somiglianza, ad assumere nei confronti di Hetzbollah un atteggiamento meno accomodante. Al contrario. Non ha mancato di partecipare, con tutta la nomenklatura, alla festa in orone dell’illustre ospite iraniano, che degli assassini paterni, gli Hetzbollah, e’ il piu’ grande sponsor.
Una figura tragica quella di Saad Hariri. La stretta di mano con Ahmedinajad rassomiglia al bacio del serpente. “Qui mi sento a casa”, ha detto il presidente iraniano a Beirut, davanti alla folla sciita , tra palloncini e petali di fiori. Saad Hariri può cominciare a fare le valigie, la casa libanese ieri ha cambiato proprietario e lo sfratto è solo questione di tempo.
La notizia è passata inosservata, i media italiani non ne hanno parlato, ma a mio avviso è di grande importanza. E’ emerso nei giorni scorsi che Arafat, dopo Camp David, chiese ad Hamas di compiere attentati terroristici. La fonte è credibile. A svelarlo infatti è Mohammed Zahar, l’uomo forte di Hamas a Gaza. Parlando agli studenti dell’Università islamica di Gaza City, Zahar ha detto che “il Presidente Arafat istruì Hamas di portare a termine un certo numero di operazioni nel cuore dello stato ebraico dopo aver compreso che i negoziati con Israele erano falliti”.
Operazioni militari, ovvero tradotto dal linguaggio del fondamentalismo islamico attentati terroristici. Finora, si riteneva che gli attentati riconducibili ad Arafat fossero solo quelli compiuti dal braccio militare di Fatah, le Brigate Al Aqsa. Ora invece si scopre che il rais porta la responsabilità morale e politica dell’intera Intifada dei kamikaze.
Un dettaglio che dovrebbe aprire gli occhi a chi, come gran parte dell’Europa, criticò la decisione israeliana di confinare Arafat nella sua “Mukata”, durante gli ultimi tragici anni della sua vita. Arafat non si limitò a rifiutare l’offerta del premier israeliano Barak. Orchestrò contro Israele una vasta campagna di terrore. E per questo scopo chiese il sostegno degli integralisti islamici, nemici ieri come oggi, del priocesso di pace. La spiegazione non può che essere una. Contrariamente alle dichiarazioni pubbliche, Arafat condivideva l’obiettivo di fondo di Hamas, la distruzione dello stato ebraico.
A 4 giorni dal vertice di Washington tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente palestiense Mahmoud Abbas, il Presidente dello Stato di Israele Shimon Peres esprime ottimismo in una intervista esclusiva che mi ha rilasciato oggi per il Tg1. Per vedere il servizio sul Tg1 delle 20, clicca qui
Di seguito il testo integrale dell’intervista (in inglese)
Claudio Pagliara: Mr. President, Prime Minister Netanyahu and Palestinian President ,Mahmud Abbas agreed to resume direct negotiations. But on both sided skepticism seems to prevail. Do you believe that it is possible to reach a peace agreement in one year?
Shimon Peres: I think that it can be reached even earlier because the subjects are known, they are not new, and also because the alternative is known. The alternative is so worrying to all sides that I think they must got a feeling “this time we have to succeed”.
CP: Do you believe that you will see peace in your lifetime?
SP: Hundred per cent
CP: Do you think that Israel should keep on freezing settlements, a key demand of the
Hassan Nasrallah ha fatto uno “scoop”. Non e’ stato il suo movimento, Hezbollah, a uccidere l’ex premier libanese Rafik Hariri il 14 febbraio del 2005, come il Tribunale dall’Onu si appresta a sentenziare ma, udite udite, Israele. Si’, l’arcinemica entità sionista sarebbe riuscita a piazzare decine di tonnellate di esplosivo sotto il selciato del lungomare di una citta’ , Beirut, dove all’epoca non si muoveva foglia senza che la Siria volesse. E come prova di questa clamorosa notizia, Nasrallah ha fornito la “confessione” di un presunto agente del Mossad inviato, a suo dire, da Israele per convincere il governo libanese sulla responsabilità di Hezbollah nell’assassinio di Hariri e vecchie immagini del luogo dell’attentato scattante anni prima da un drone israeliano.
Se non fossimo in Medioriente, la “rivelazione” meriterebbe di essere archiviata nel bidone della spazzatura. Invece, ha avuto eco, eccome. Iran e Siria si sono affrettati a definire schiaccianti le “prove” fornite da Nasrallah. E l’anemico premier libanese, Saad Hariri, padre di Rafik Hariri, per non sbagliare ha chiesto all’Onu di valutare i nuovi elementi forniti da Hezbollah.
La farsa e’ destinata a continuare nei prossimi mesi, quando le prove vere, quelle raccolte dal tribunale ad hoc istituito dall’Onu nel 2007, inchioderanno, che le indiscrezioni sostengono, dirigenti di spicco di Hezbollah. Saad Hariri, che ha ceduto alle richieste di Hezbollah e ha dato al movimento sciita potere di veto nel governo, si troverà nella scomoda posizione di presiedere un governo dove siedono gli assassini del padre. Non vorremmo essere al suo posto.
Le “rivelazioni” di Nasrallah sono pero’ anche e soprattutto la spia della debolezza della sua leadership. Quattro anni fa, con il rapimento di due soldati israeliani, ha spinto Gerusalemme ad una offensiva che ha distrutto le infrastrutture del Libano e ha imposto una robusta presenza di forze Unifil nel sud del Paese. E’ vero che in questi anni l’Iran, attraverso la Siria, ha riarmato Hezbollah ad un livello mai raggiunto prima. Ma Nasrallah ha di fatto le mani legate. Non puo’ continuare la sua guerra di frizione contro Israele perche’ le sue milizie sono state allontanate dal confine. Il suo potere politico, una volta pubblicati i risultati dell’inchiesta del Tribunale Onu, e’ destinato ad essere messo in discussione. Del resto, ricordiamolo, all’indomani della guerra del luglio del 2006, nonostante Israele non riusci’ ad ottenere una vittoria decisiva contro le sue milizie, Nasrallah dichiarò che se avesse saputo l’intensità’ della reazione israeliana non avrebbe mai ordinato l’attacco che l’ha scatenata.
Toccante appello di Zubin Mehta a Hamas. Il Maestro in campo per Gilad Shalit. Domani, dirigerà un concerto per il caporale israeliano, da 4 anni ostaggio di Hamas. “Chiediamo a chi lo detiene di consentire alla Croce Rossa Internazionale di visitarlo, come prevede la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra”, mi dice. Gli chiedo se pensa che il linguaggio universale della musica possa far breccia nel granitico cuore di Hamas. “Dobbiamo almeno sperarlo”, mi risponde, allrgando le braccia.
Il concerto si terra’ a Park Eshkol, nel Negev, vicino, ma non troppo, alla Striscia di Gaza. L’Esercito ha dissuaso gli organizzatori dal tenerlo a ridosso del confine, come avevano previsto in un primo momento. Musicisti e pubblico sarebbero stati troppo esposti ad un eventuale lancio di razzi, che nessuno si sente di escludere.
Mitzpe Hila. E’ mezzogiorno di uno dei giorni piu’ torridi, sabato 18 giugno, quando arrivo a Mitzpe Hila, il villaggio dove la famiglia Shalit vive da 23 anni, la stessa eta’ di Gilad. La casa, un villino bianco col tetto di tegole rosse, si trova sul punto piu’ alto di una collina che domina la Galilea Occidentale . La posizione ventilata non aiuta a sentire meno stringente la morsa di un caldo inusuale per la stagione. Dal giardino, guardando verso nord, si puo’ facilmente seguire con gli occhi il percorso della tortuosa strada che segna il confine tra Israele e il Libano del Sud, il regno sempre piu’ incontrastato delle milizie sciite Hezbollah. Un katiuscia e’ esploso nel giardino dei vicini dei Shalit, nel luglio del 2006, durante la seconda guerra del Libano.
Suono il campanello. Mi apre Aviva, la mamma di Gilad, gli occhi rossi di chi non smette di piangere. E’ indaffarata ai fornelli, non parla mai con i giornalisti, cio’ che le e’ accaduto e’ piu’ grande di lei. Chiama il marito al telefono. Noam, calzoncini corti e t-shirt, arriva di li’ a pochi minuti. E’ arrabbiato e non lo nasconde. La pressione internazionale su Israele, dopo l’assalto alla facinorosa flottiglia per Gaza, ha spinto il premier Netanyahu a rimuovere l’embargo contro Hamas. Vorrebbe almeno che il mondo esercitasse la stessa pressione su Hamas, per farle accettare un accordo che definisce “generoso”, quello avanzato 6 mesi fa dal governo israeliano: “Mille detenuti palestinesi per mio figlio”. Mi conferma di aver contattato gli organizzatori della Flottiglia turca, di aver chiesto loro di portare un pacco per Gilad sulle loro navi, ottenendo un secco rifiuto. Da 4 anni, dal quel lontano 25 giugno del 2006, non e’ riuscito a far avere al figlio neppure una lettera. Hamas si rifiuta di compiere un gesto di umanità evidentemente estraneo al DNA dell’integralismo islamico. Chiedo a Noam perche’ tanta ferocia. “Dimostra solo che Hamas e’ una banda di terroristi e nulla di piu’. Lo chieda a loro. Lei ci puo’ andare nella Striscia di Gaza, io no”. Rispondo che Muhammad Zahar, uomo forte di Hamas, risponde alla domanda invitando i giornalisti che gliela pongono ad occuparsi dei 10 mila prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Noam si inalbera. “E’ un parallelo ridicolo. I detenuti palestinesi ricevono lettere, pacchi, visite di familiari, soldi. Hanno la possibilità di compiere studi accademici. In prigione prendono la laurea, il master. Hanno la TV con tutti i canali via cavo. Mi figlio invece, questo lo sappiamo con certezza, da 4 anni vive nel piu’ completo isolamento, al buio, senza mai vedere la luce del sole. L’unico contato e’ con i suoi carcerieri”.
Noam Shalit si e’ messo in aspettativa. Non avevo ne’ la testa ne’ il tempo la per il lavoro. Si dedica a tempo pieno alla campagna per la liberazione del figlio. Nonostante il sostegno dell’opinione pubblica israeliana, non vede luce alla fine del tunnel. Le trattative sono interrotte da dicembre, quando Hamas ha rifiutato l’offerta israeliana, avanzata dal mediatore tedesco. I giorni passano, e nulla accade. Nel salotto, davanti al divano, in uno scatolone, una torta di plastica con su scritto “Buon 23esimo compleanno, il prossimo a casa”. L’ha portata uno dei tanti visitatori, in occasione dell’ultimo compleanno di Gilad, il quarto in cattività. “Non sappiamo com’e’ Gilad oggi. Non lo conosciamo piu’ – mi dice Noam, con un filo di voce e un mare di dolore -. E’ passato troppo tempo. Sappiamo solo come era 4 anni fa. L’ultimo volta che venne a casa, in congedo dal servizio militare, c’erano i mondiali di calcio in Germania e il torneo di basket della NBA. Amava calcio e basket. Non si perdeva una partita, quando era a casa. Per vedere quelle di basket metteva la sveglia, si alzava nel cuore della notte, poi tornava a dormire. Non ha visto, naturalmente, l’ultima partita della Coppa del mondo”.
Gilad Shalit fu rapito due settimane prima di Italia – Francia. Da allora solo buio. Non sa che su Facebook decine di migliaia di persone hanno scelto la sua come foto del profilo. Non sa che davanti all’ufficio del primo ministro c’e’ una tenda dove stazionano, notte e giorno, volontari e che ogni mattina il cartello con il numero di giorni di prigionia e’ aggiornato manualmente: sono gia’ piu’ di 1500 giorni. Non sa neppure che il padre, Noam, oggi e’ a Roma, al Colosseo, e che alle 21,30uno dei monumenti piu’ famosi al mondo si spegnerà, nel 4 anniversario del suo rapimento, per chiederne l’immediata liberazione, una iniziativa che mostra la straordinaria sensibilità dell’Italia ad un caso che buona parte dell’opinione pubblica internazionale ignora.
Noam Shalit rientrerà domani in Israele. E dal 27 giugno all’8 luglio, marcerò da Mitzpe Hila a Gerusalemme. E’ intenzionato a restare davanti alla residenza di Netanyahu finché il figlio non tornerà a casa. Mi congeda con una amara certezza: “Non posso aspettare un altro anno”.
Quattro anni di prigionia, nessun contatto col mondo esterno, rifiuto delle reiterate richieste di visita da parte della Croce Rossa Internazionale, un solo video che prova che è vivo. E ora un cartoon,realizzato con dispendio di mezzi e indubbia professionalità, per far leva sul dolore di un padre che dal lontanissimo giugno del 2006 vive incollato al telefono nella speranza di una buona notizia che non arriva.
Il video è il ebraico, perché è all’opinione pubblica israeliana che si rivolge. L’uomo che appare di spalle nella prima sequenza e Noam Shalit, il padre coraggio, che da 4 anni batte le strade del mondo in lungo e largo per mobilitare l’opinione pubblica internazionale. Nel video,Noam cammina solitariocon la foto del figlio sotto braccio. Davanti ai suoi occhi i cartelloni elettorali con le promesse non mantenute di successivi premier, Olmert, Netanyahu. Legge su un quotidiano dell’offerta di 50 milioni di dollari a chiunque fornisca informazioni su Gilad. Il riferimento è ai 10 milioni di dollari che Israele ha poprmesso nel tentativo vano di avere notizie su Ron Arad, un pilota catturato 21 anni fa in Libano. Il video, 3 minuti , si conclude con una sequenza agghiacciante. Noam, ormai vecchio , camminando a stento, giunge al confine di Gaza, da dove un convoglio della Croce Rossa esce. Gli riporta non il figlio, come lui fino all’ultimo spera, ma una bara.
Il cartoon diffuso all’indomani della decisione israeliana di permettere il trasferimento della figlioletta malata del ministro dell’Interno di Hamas in un ospedale giordano.
Netanyahu ha reagito lapidario: “Il video svela la vera natura di Hamas”. Indignato anche Noam Shalit: “Hamas antepone i suoi interessi a quelli del suo popolo”.