Il mio buongiorno in una foto al giorno: bere il tè a Kashgar
Il mio viaggio lungo l’antica Via della seta mi porta oggi a Kashgar, nell’angolo nord-ovest della Cina, alla stessa distanza, 4.000 chilometri, da Pechino e Roma.
E’questo anche luogo di altissima tensione tra la ministanza uiguri, di origini turche e religione musulmana, e le autorità cinesi.
Kashgar, durante questo mese di ramadan appare in stato d’assedio,
Juliano Mer-Khamis, arabo israeliano, pacifista e sopratutto attore e regista, e’ stato ucciso ieri a Jenin, da un commando palestinese, una tragica ironia della sorte dal momento che aveva speso gran parte della sua vita a difendere la causa palestinese, lui che aveva sempre dovuto lottare con la sua doppia identità’, figlio di madre ebrea e di padre arabo. Lo hanno ammazzato con una raffica di pallottole davanti al teatro che lui aveva creato, “Freedom Theater”, il teatro della libertà’. Qualche tempo fa Juliano aveva ammesso di sentirsi in pericolo di vita e di prendere precauzioni. I radicali islamici non potevano sopportare l’idea che uno dei progetti culturali più’ importanti dei Territori fosse condotto da un artista per meta’ ebreo. , “Una lampante forma di razzismo”, aveva denunciato Juliano. Che aveva concluso con parole chiaroveggenti: “Dopo tutto il lavoro fatto in questo campo rifugiati, sarebbe una vera sfortuna essere ucciso da proiettili palestinesi” . Il premier palestinese Salam Fayyad ha denunciato l’uccisione come “Una grande violazione dei valori umani” e ha promesso di arrestare i responsabili.
Avevo incontrato Juliano l’8 marzo a Jenin. Aveva scelto la Festa delle donne per la prima della sua nuova creatura artistica, un “Alice nel Paese delle meraviglie” in versione palestinese e femminista. Ecco il testo dell’intervista.
Claudio: Perché’ Alice nel Paese delle meraviglie a Jenin?
Juliano: Alice nel paese delle meraviglie e’ un testo immaginifico, fantasioso, non e’ stato difficile trasformarlo, adattarlo alla realtà’ di Jenin. E’ un inno alla liberazione: liberazione personale e liberazione nazionale. Per una strana coincidenza, mettiamo in scena lo spettacolo dopo le rivoluzioni in Tunisia, Egitto e, inshallah, anche in Libia.
C: La sua Alice e’ prima di tutto un’opera d’arte di alto livello, forse il più’ alto mai raggiunto in Palestina…
J.:Io metto l’enfasi sulla qualita’. Non e’ sufficiente avere un messaggio di alto valore sociale o politico. E’ importante che lo spettacolo abbia un alto valore artistico. L’equipe e’ composta da professionisti. E questo e’ il messaggio che cerchiamo di trasmettere sia agli studenti della scuola di teatro sia all’audience.
C: Ci racconti l’Alice di Jenin…
J: La nostra Alice e’ costretta a fidanzarsi con Ahmed, ma lei non vuole sposarlo e scappa. Nella fuga incontra Rabbit, il coniglio, che la trasporta nel Paese delle meraviglie, Jenin-land. Una terra delle meraviglie dove la gente non si cura che il telefonino squilli nel mezzo della rappresentazione teatrale, ad esempio… Una terra dove c’e’ un baccano infernale, dove l’esercito israliano compie incursioni. Entrata questo mondo, Alice incontra diversi uomini. La desiderano, vogliono fare all’amore con lei, vogliono sposarla. Intraprendendo questo viaggio, Alice cresce, impara e diventa una ragazza indipendente, si sente finalmente libera. Il messaggio e’ che se le nostre donne, le nostre sorelle, le nostre madri non saranno libere, noi tutti, noi palestinesi non saremo mai veramente liberi.
Gerusalemme. Ore 15, nella saletta di montaggio, dove sono rinchiuso notte e giorno per terminare il mio documentario su: “Quest’anno a Gerusalemme” (Tg2 Dossier prima di Pasqua) arriva, sordo, un botto inconfondibile. “Pigua pigua”. “Balagan, balagan”. Attentato! Che casino! il lessico ebraico di base che si apprende appena si arriva in Israele.
La fermata dell’autobus dove mani ignote, scoprirò, hanno lasciato il pacco bomba esploso è a 200 metri dall’ufficio. Esco con il mio cameraman. In ascensore, voglio ancora credere che non sia vero. Su Jaffa road, non ho più dubbi. Decine e decine di ambulanze, decine e decine di auto della polizia , decine e decine di persone corrono verso il luogo dell’attentato. Mi metto a correre anch’io, facendo zigzag tra le auto con le sirene spiegate.
Dall’esplosione sono passati pochi minuti. Vedo un ferito in barella. Il primo autobus colpito dall’onda, i vetri anteriori in frantumi. Il secondo è a 20 metri , sono i vetri posteriori che si sono sbriciolati. L’ordigno è esploso sul ciglio della strada, vicino ad una cabina telefonica.
Il telefonino inizia a squillare, gli sms ad arrivare. “Come stai? Tutto bene?” Arriva anche una mail dal Giappone. Avital è lì, a 500 chilometri da una centrale nucleare impazzita , eppure si preoccupa di accertarsi che i suoi amici siano in salvo.
Gerusalemme , Israele, avevano rimosso gli anni 2000 – 2005. E anche io. Ieri, per tutti, il triste senso di un dèjà vu.
Per vedere il servizio sull’attentato, Tg1 20.00 del 23/3/2011, cliccca qui.
Netanyahu ha scelto il generale Yaakov Amidror come nuovo Presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, ignorando le perplessità di settori della sinistra che lo considerano un falco. Sostituirà Uzi Arad, che torna all’attività accademica, dopo che il ministro degli Esteri Lieberman si è opposto alla sua nomina ad ambasciatore in Gran Bretagna.
Amidror è stato il primo comandante arrivato dalle file del sionismo religioso. Ha servito nell’esercito per 36 anni, ricoprendo gli incarichi di direttore dell’intelligence militare e comandante dell’Accademia militare. Il 9 febbraio scorso, quando la piazza Tahrir ancora non aveva dato la spallata finale a Mubarak, l’ho intervistato nella sede dell’Istituto Lander, di cui è vice presidente da quando è andato in pensione dall’Esercito. Alla luce della nomina, le sue risposte aiutano a capire il punto di vista dell’establishment israeliano sulle sfide del prossimo futuro.
Lei teme che l’Egitto possa cambiare la sua collocazione internazionale?
Non abbiamo la sfera di cristallo. Ciò che conosciamo è la situazione sul campo. L’opposizione ha caratteristiche singolari. Non ha un leader, si è organizzata attraverso internet, Facebook. La domanda aperta è cosa accadrà quando il popolo sarà chiamato a votare. Per raccogliere voti, è necessaria una organizzazione. E per ora c’è una sola forza organizzata, i Fratelli Musulmani. Hanno una lunga tradizione, 80 anni, profonde radici nella società e sono ramificati in tutto l’Egitto. La loro forza l’hanno dimostrata nelle penultime elezioni, ottenendo 88 seggi contro i 36 delle altre forze dell’opposizione. Al momento, non sappiamo cosa accadrà al partito di governo, se si disintegrerà, se troverà un nuovo leader. In ogni caso, c’è ragione di temere che in libere e democratiche elezioni i Fratelli Musulmani vincano. E’ già accaduto in passato. Penso alla Rivoluzione francese: alla fine gli estremisti, non i liberali, prevalsero. Penso alla rivoluzione in Russia: prima che i comunisti ne prendessero la testa era guidata da forse democratiche e liberali. Pensi all’Iran: il premier, nel 1978, era un liberale e alla fine è tornato Khomeini e ha spazzato via tutti. E non facciamoci illusioni, Il linguaggio moderato usato oggi dei Fratelli Musulmani fa parte del gioco. La loro ideologia è quella dell’estremismo islamico. Se in futuro saranno in grado di influenzare il governo, condurranno l’Egitto in uno stato di frizione con Israele.
Se l’Egitto cadesse nelle mani dei Fratelli Musulmani, che nuovi problemi di sicurezza ci sarebbero per Israele?
Dipende dall’Egitto. Noi non abbiamo interesse a cambiare nulla. Stiamo a guardare, cerchiamo di impariarare e col tempo valuteremo il da farsi. Reagiremo a seconda delle azioni che verranno dall’altra parte del confine. Sono certo che l’esercito egiziano comprende il pericolo di un cambio di politica e farà tutto il possibile per mantenere lo status quo. Ma Israele è di fronte ad un gigantesco punto interrogativo. La verità è che non possiamo prevedere che direzione prenderà l’Egitto.
Le nuove incognite hanno un impatto sul processo di pace?
Alla fine gennaio 2009, quando potetti finalmente entrare nella Striscia di Gaza, che per il mese precedente, quello dell’offensiva Piombo Fuso, era stata interdetta alla stampa estera (provvedimento censurabile e controproducente, deciso – mi è stato – dal premier Olmert contro il parere dei vertici militari) realizzai almeno due scoop. Il primo: intervistai una giovane ragazza che per tre settimane aveva implorato i militanti di Hamas di non usare il grattacielo dove abitava con decine di altre famiglie come base per lanciare razzi contro Israele, ricevendo come tutta risposta l’invito ad immolarsi per la causa. Il secondo: scoprii che il missile israeliano che aveva fatto vittime in una delle scuole dell’Unrwa era esploso fuori il recinto, e non dentro come riportato dalle fonti locali.
Poi è arrivato il rapporto Goldsone, che ha messo sullo stesso piano Hamas e Israele. Confesso che, da testimone dei fatti, ne rimasi sconcertato. Come è possibile un simile parallelo? Vero, l’offensiva Piombo Fuso ha causato almeno 1200 vittime palestinesi. Vero , la maggioranza di esse sono civili. Eppure, la condotta di Hamas e di Israele non possono essere giudicate con lo stesso metro: da una parte c’è una organizzazione