Trump su Gerusalemme ha ragione.
Apriti cielo! La dichiarazione con cui Donald Trump ha riconosciuto che Gerusalemme è la capitale d’Israele è stata accolta da un coro di critiche. Non è piaciuta, ovvio, ai palestinesi, non è piaciuta, altrettanto ovviamente, ai Paesi arabi. Ma non è piaciuta neppure agli alleati occidentali di Israele e allo stesso establishment diplomatico americano: l’assenza del segretario di Stato americano Tillerson dalla stanza della Casa Bianca da dove Trump ha letto sul teleprompter gli 11 minuti di discorso suona come una netta presa di distanza.
Eppure, Trump su Gerusalemme ha ragione e tutti gli altri torto. Gerusalemme è la capitale d’Israele da 70 anni. Dalla fondazione dello Stato, ospita la sede del governo, del Parlamento, della Corte suprema, ovvero i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) che costituiscono i pilastri di una democrazia. Il Congresso americano, con un voto bipartisan, ha approvato nel lontano 23 ottobre del 1995 il Jerusalem Embassy Act, una legge che dispone lo spostamento dell’ambasciata statunitense dal lungomare di Tel Aviv alle colline di Gerusalemme ovest. Il rinvio dell’attuazione di questa decisione non ha dato – come ora si vuol far credere – più frecce all’arco della diplomazia americana. Lo dimostra il fallimento del più serio tentativo di forgiare un accordo di pace, quello compiuto da Bill Clinton. E chi avesse dubbi sulle responsabilità di Arafat nel naufragio del processo di pace di Camp David, si rilegga le memorie dell’ex presidente americano che ne fu l’artefice.
E’ patetico lo sforzo di molti commentatori di dimostrare che la mossa di Trump comprometterebbe il processo di pace. Ma scherziamo? Chi lo scrive non ha il senso del ridicolo? Processo di pace! Chi ne ha visto un barlume batta un colpo. Non c’è processo di pace alcuno, e non ci sarà ancora per molto tempo, fino a quando le leadership dei due popoli non mostreranno una onesta determinazione di volerlo perseguire.
Detto ciò, l’annuncio di Trump va messo nella dovuta prospettiva. Riconoscendo Gerusalemme quale capitale d’Israele, il capo della Casa Bianca non ne ha demarcato i confini. Ha ribadito, al contrario, quella che è la tradizionale linea della diplomazia americana: spetta a israeliani e palestinesi stabilire col negoziato i confini reciproci e risolvere le dispute territoriali, Gerusalemme inclusa. Per questo, sarebbe auspicabile che le forti e contrastanti emozioni legittimamente suscitate dalle parole del Presidente americano – gioia in Israele e rabbia nei Territori palestinesi – si spegnessero e lasciassero il posto valutazioni più ponderate.
Chi, da una parte e dall’altra, con rammarico o soddisfazione, ritene che Trump abbia messo di fatto la pietra tombale sull’unica soluzione del conflitto possibile, quella basata sulla formula “due Stati per due popoli”, potrebbe presto o tardi dover fare i conti con il suo volto del capo dellas Casa Bianca, quello dell’uomo d’affari, per il quale tutto è negoziabile e un compromesso è sempre possibile, basta pagare il giusto prezzo. La formula “uno stato” – verso la quale paradossalmente ma non troppo convergono gli opposti estremismi – è palesemente una non soluzione. perpetuerebbe esacerbandolo il conflitto attuale. A mantenere viva la speranza, una costatazione. Anche in questi anni di stallo, la cooperazione sul terreno della sicurezza tra l’esercito israeliano e le forze di polizia dell’Autorità palestinese, che non si è interrotta se non per brevi periodi, ha evitato, nell’interesse reciproco, il dilagare della violenza. Da questa realtà, si dovrà prima o poi ripartire. Leader coraggiosi cercasi.
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